Leggere e scrivere

Una stanza senza libri è come un corpo senz'anima.
Cicerone


La vita o la si vive o la si scrive.
Luigi Pirandello

giovedì 28 novembre 2013

Piove



Gocce
simili a lacrime
si confondono nel 
blu cupo del mare.
Irato e rabbioso
percosso da venti impetuosi,
infrange gli scogli
e sfida la riva.
Un lampo di luce
trafigge
quell'infinito elemento
che diventa
color dell'oro puro.
Piovono incessanti,
gocce cristalline
perse nei flutti
della vita...
che annegando 
in quell'infinito senza fine,
si trasformano
in minuscoli diamanti e 
argentee perle preziose.

nereidebruna

sabato 23 novembre 2013

Altri cieli

Ero pentito! 
La mia mente per alcuni minuti aveva ritrovato il passato... Un tempo non molto lontano perché ne percepivo ancora chiaramente i suoni, le sensazioni, i brividi e le emozioni intense. 

Per anni avevo vagato come un esule guerriero alla ricerca di tesori immaginari e di confini irreali nella certezza di raggiungere una meta. 
Nessuna resa difronte alle avversità e ai pericoli; ho fronteggiato con coraggio le battaglie della vita e spesso ne sono uscito vincitore. Sì, non nego di aver fatto danni, di aver lasciato tracce sofferte al mio passaggio, senza per altro pentirmene. In coscienza, non provavo alcun dolore o dispiacere e sinceramente la mia vita mi piaceva. Ho sempre fatto questo: mio padre, mio nonno e ancor prima molte generazioni addietro... Potevo quindi scegliere altre strade? Un mio vecchio avo, servì addirittura la regina. Si racconta, essendo uomo rude ma vigoroso e belloccio, che  fosse stato l'amante della sovrana per lungo tempo.

Mi sentivo un dio eterno in quell'immensità immutabile e a volte complice. 
Ricordo quando Pedro, amico fidato e compagno di ventura, all'alba di un giorno come tanti, mentre il sole nasceva glorioso impossessandosi di un cielo azzurro intenso, mi disse:
-  Bah, comincio ad averne abbastanza. Per mille barili... ho visto troppo sangue... credo sia arrivato il momento di gettar la spugna. -
Lo fissai a lungo dopo questa affermazione, ma rimasi in silenzio. Nelle ore che seguirono mi ritrovai a riflettere su quelle parole. E forse, ne diedi atto, aveva ragione. In effetti, ero stanco e desideravo fermarmi e magari mettere anche radici: una donna che ti scalda il letto e ti lava i calzoni e dei mocciosi che girano per casa assordandoti con le loro urla... Un quadretto, in fondo, niente male. Ma era quello che volevo veramente? Ero pronto ad abbandonare soprattutto le continue sensazioni  di potere e le grandi emozioni che scaldavano la mia esistenza? Cosa mi aspettava, oltre quel confine? Forse, avrei perso me stesso non ritrovandomi mai più. Ma dovevo tentare: il momento era arrivato! 
Accolsero la notizia, esultando, e mi resi conto che, intorno a me, erano tutti stanchi. 

Pochi giorni dopo, appesi il cappello al chiodo... Ammainai la bandiera con un groppo alla gola. Mi scolai un'intera bottiglia di rum affogando spudoratamente i miei tanti dubbi e le mie perplessità. 
Con un freddo saluto d'addio voltai frettolosamente le spalle a quella che era stata la mia casa per oltre trent'anni... il mio covo, la mia famiglia... la mia vita! Ora, mi si aprivano nuovi orizzonti, altri cieli e nuove speranze. Sì, ero pronto! 

Passarono solo alcuni mesi...
Non avevo combinato niente; anzi mi sentivo rimbecillito. Inutile, un reietto.
E appena albeggiò, in un giorno qualunque, ripresi il cappello appeso al chiodo, issai al pennone la bandiera che sventolò orgogliosa in un azzurro intenso; mi scolai di nuovo una bottiglia di vecchio rum e guardando quell'immensità cobalto di flutti e spume, mi sentii di nuovo un dio.
Gridai a tutta voce:
- Avanti a tutta dritta, ciurma... sbrogliate i veloni e i velacci... Il vento spingerà di nuovo questa carcassa di legno fino alla fine del mondo! -

nereidebruna

mercoledì 20 novembre 2013

Incontrarsi

Incontrarsi... 
Aspettavi assorta quell'onda 
e il suo riversarsi languido sulla battigia. 
Cercavi i piccoli diamanti di cristallo 
persi nell'oro prezioso. 
La bianca spuma accarezzava i tuoi passi
mentre ti inebriavi d'azzurro.
Niente poteva rallentare il tuo cammino
che inesorabile seguiva quel sogno.
La marea era musica per te,
mentre tramontava in silenzio il sole,
oltre la fine del mare.
Aspettavi ancora... in attesa...
l'incontro.
Due anime finalmente ritrovate
dopo un lungo viaggio,
nella vita e nel tempo.
E quel desiderio di resa
che per un attimo 
ha travolto il tuo cuore,
si è perso nell'onda perpetua 
della risacca
e nel soffio bizzarro del vento.

nereidebruna

lunedì 18 novembre 2013

Amo il silenzio

Mi circondo di silenzio... amo il silenzio. 
Nel silenzio mi ritrovo e mi racconto; 
nel silenzio sento i battiti del mio cuore 
e il respiro del vento. 
Nel silenzio
odo il canto degli uccelli e
il suono perpetuo della risacca.
Nel silenzio ascolto la marea
che infrange gli scogli
e il tempo che inesorabile passa.
Nel silenzio mi incontro con Dio
e innalzo la mia lode al Cielo...
E, cerco con gioia il silenzio,
quel silenzio speciale e immutabile
dove l'unione sublime con il Creato
sa di eterno e di miracolo.
Amo il silenzio... 

nereidebruna


venerdì 15 novembre 2013

Aspettando il sole

M'inebrio di Sole e di Luce

Star Wars: Una saga inimitabile

« La Forza è potente in te. Un potente Sith tu diventerai. D’ora in poi sarai chiamato con il nome di Darth… Fener! 


Non amo molto la fantascienza, ma la saga di Guerre Stellari mi ha veramente appassionato. Ho il cofanetto completo di tutti i DVD e spesso la rivedo volentieri. Alcune scene sono state girate in Italia: ho riconosciuto le grandi e splendide sale della Reggia di Caserta... il bellissimo lago di Como e il maestoso Etna.

Mi sono sempre chiesta però chi si muoveva dentro quell'armatura spettrale di Darth Fener. Ho fatto una ricerca ed ecco... a voi: Sith Darth Fener:

David ‘Dave’ Prowse, l’uomo dentro l’armatura di Darth Fener





Alcune frasi celebri:

« Tu non conosci il potere del Lato Oscuro. Io devo obbedire al mio Signore. » (Darth Fener)

« So che c'è del buono in te. L'Imperatore non è riuscito del tutto a privartene. »
(Luke Skywalker)


mercoledì 13 novembre 2013

Un nuovo giorno

Nasce un nuovo giorno
e sul mare pare eterno.
Brillano invisibili diamanti
sparsi nell'azzurro
e rivoli di lucida bianca seta
si perdono nella riva.
Sinuosi, accarezzano l'oro
e diventano un confondersi
di preziosi gioielli,
di candide perle e di zaffiri blu,
che a rimirar,
il cuore mai si stanca.
I flutti impetuosi
accolgono i dolci pensieri,
del tempo che va,
e l'onda spumeggiante
porta con sè,
nell'eterno perpetuo,
il vagar continuo
dei miei sogni.

nereidebruna

Pirati


sabato 9 novembre 2013

Passi d'ombre - 4° parte -

Riacquistò fermezza e coraggio. Diglutì e respirò a fondo per scacciare la tensione.
Temeva il buio, ma il desiderio legittimo di conoscere la verità superava ogni suo timore. Uscì dalla camera facendo meno rumore possibile... forse i battiti accelerati del suo cuore avrebbero potuto svegliare qualcuno visto la furia che le squarciava in petto.
Le parve che le scale fossero infinite. La luce della torcia accompagnò i suoi passi avvolti nelle tenebre della notte.
Con le mani sudate aprì la porta d'entrata che immetteva nell'ampio portico lastricato di marmo rosa davanti al giardino silenzioso e addormentato.
Si avviò lentamente lungo il viale rischiarito dai lampioni guardandosi intorno; udiva ancora, seppur ovattati, quei strani rumori che provenivano in fondo al prato, vicino alla quercia.
Di nuovo il canto di una civetta. Rabbrividì. 
Per un attimo si pentì di non aver svegliato nessuno; affrontare l'ignoto da sola poteva essere pericoloso. Che sciocca e incosciente; meglio tornare indietro... ma tali pensieri furono improvvisamente accantonati dal rumore sempre più vicino e da quell'ombra indefinita che piano piano stava assumendo una forma.
E quello che vide la sorprese e nello stesso tempo la rassicurò:
- Poldo... che ci fai qui, bello... - e si abbassò per accarezzarlo e calmarlo. Ansimava e raspava con foga sulle terra smossa. Aveva fatto una buca e con il muso sporco di terriccio annusava nervosamente, eccitato.
- Su, calmati... che stai facendo? -  
La giovane incuriosita si inginocchiò accanto al cane che non smetteva di scavare. 
Con la mano tastò e smosse la terra; toccò qualcosa.. sembrava un pezzo di tessuto... un lembo. Fece luce con la torcia. Sì, era una striscia di stoffa e pareva di color avorio. Un colpo al cuore, il respiro rallentato... rivoli di sudore freddo le inumidirono la fronte. 
Poldo cominciò a guaire e a lamentarsi mentre con i denti tirava il pezzo di lembo scoperto.
- Mamma... - pensò Letizia, ma il sussurro le morì in gola. Udì un improvviso rumore alle sue spalle e un calpestio di foglie secche. Si alzò di scatto:  il tocco di una mano sulla sua spalla e la percezione di un respiro sul collo le provocarono un mancamento e la testa cominciò a girare.

- Letizia... Letizia... - Riprese padronanza dopo alcuni attimi. Di nuovo:
- Letizia... su... svegliati... siamo atterrati a Roma, finalmente! -
Aprì gli occhi e si guardò intorno frastornata. Incontrò uno sguardo dolce e rassicurante che le mise pace e serenità nel cuore.
- Mamma... mamma... - e l'abbracciò commossa, con affetto e lungamente. Poi aggiunse:
- Nessun viaggio in aereo è mai stato così bello, mamma... soprattutto ritrovarti qui vicina, accanto a me... - e le sorrise dolcemente stringendo forte la sua mano che portò alle labbra e baciò.

nereidebruna

                                                                              Fine



venerdì 8 novembre 2013

Passi d'ombre - 3° parte

Pomeriggio. 
In cucina trovò Maria e Carmela indaffarate nel riordinare. Entrambe la sentirono arrivare e si girarono; la domestica si asciugò le mani nel canovaccio e si schiarì la voce leggermente afona dovuta ad un raffreddamento. 
- Letizia cara, vi serve qualcosa? - 
- Scendo in paese. Ho voglia di fare due passi... - 

- E' un po' tardi, sono già le quattro e rammentate che fa buio molto presto. Vi consiglio di riposarvi, domani in serata arriva vostro padre. Preferisco che non vi allontanate. Se non sbaglio, l'auto è in officina per dei controlli. L'ha portata Tonio questa mattina... al ritorno del marchese deve essere in perfetto stato. Sapete bene quanto ci tenga a quella macchina. Fatevi una cavalcata... - La giovane alzò le spalle e sbuffò. Andò in giardino e si sedette su una panca davanti alla fontana. 
Era stanca e sfiduciata. Voleva certezze... 
Un sole pallido spingeva i suoi raggi oltre le nubi riversandosi debole sui prati; il giardiniere Tonio stava potando la siepe di lauro in compagnia del suo bastardino Poldo, un terribile ma affettuoso ammasso ruspido di pelo nero. 
La vide e le fece un cenno. Il cane le corse incontro festoso. Lo accarezzò dolcemente ricordando quanto fosse teneramente legato alla sua mamma. Spesso passeggiavano insieme nel giardino; era viziato e coccolato da tutta la famiglia.
Si avvicinò a Tonio mentre Poldo continua a saltellare intorno, felice.
- Buongiorno... -
- Signorina, buongiorno a voi. Oggi il tempo non è dei migliori. C'è molta umidità nell'aria e le rose ormai hanno terminato di fiorire. Ah, come le amava vostra madre... le voleva sempre ben curate - e abbassò il capo per nascondere la tristezza che palesava dal suo volto. 
Poldo si era accucciato e stava sonnecchiando. 
- Finalmente qualcuno osa parlare di mia madre... sembra un argomento proibito. Capisco che è doloroso, ma comunque non si può averne così timore e paura. -
- Mi permetto di aggiungere che si è ancora sconvolti. Sì, è passato un anno, è vero, ma questo stato di non sapere, è terribile, signorina. Terribile!-
- Dimmi Tonio, tu non hai alcuna idea in proposito? -
- Oh... no...no... mi dispiace - e riprese il suo lavoro a capo chino; le fu chiaro che l'argomento era chiuso.

Dopo cena salì in camera e si buttò a peso sul letto. Non riusciva a ricordarsi nulla e quando si sforzava le veniva un forte mal di testa. Eppure quel grido... quel corpo le parevano veri, reali. Possibile che avesse solo sognato?
E il sonno la prese dolcemente. 
Ad un tratto una folata di vento spalancò un'anta della portafinestra: il blocchetto di chiusura era difettoso e poco ermetico. Doveva essere sistemato al più presto visto l'arrivo imminente dell'inverno. 
Si svegliò di scatto mentre il cuore le palpitava forte in petto. Il pendolo in fondo al corridoio battè dodici tocchi. Mezzanotte.
Fuori la luna tonda schiariva debolmente l'oscurità della notte con un alone biancastro e purpureo. 
Si alzò per chiudere e si rese conto di essere ancora vestita. 
Si sporse dalla ringhiera del terrazzo. Faceva freddo, un freddo pungente. 
Il vento muoveva le fronte degli alti pini marittimi e sibilava fra i rami mentre una civetta lungamente cantava. 
Tirò su la zip della felpa e respirò a fondo per scacciare la tensione. Un brivido... i ricordi dolorosi riaffiorarono: rivide quel corpo inerme sotto la pioggia furiosa.
- Mamma... mamma... - ripetè più volte in un sussurro e ancora lacrime sul suo bel viso. Le mancava così tanto. 
Il lampione acceso schiariva di bianco il viale lastricato immerso nelle tenebre.
Ma in quella oscurità vide qualcosa... Sì, vicino alla grande quercia secolare un'ombra scura e indefinita si muoveva furtiva. Strani rumori provenivano da lì. Aguzzò la vista; il respiro le morì in gola. Tentò... ma non riuscì ad urlare.

continua



mercoledì 6 novembre 2013

Passi d'ombre - 2° parte

- Oh, eccovi finalmente in ordine come si addice ad una marchesina, anche se un abitino è senz'altro più femminile, ne avete di così deliziosi, ma capisco... siete giovane. Mangiate una fettina di dolce appena sfornato. Non avete neppure fatto colazione. Siete scappata via come un fulmine. Su, è il vostro dolce preferito! -
Letizia scosse la testa. Aveva un groppo allo stomaco e non sarebbe riuscita ad ingoiare nulla; fissò sfrontatamente Maria anche se non era nel suo carattere, ma era stanca e esigeva delle spiegazioni.
- Senti Maria, ho compreso che nessuno desidera parlare della mamma, ma è mio diritto sapere dov'è o cosa le è successo? - e si sedette sulla panca appoggiando la schiena alla parete. E rimase in attesa osservando gli occhi di Maria che divennero improvvisamente tristi e umidi.
- Voi, volete farmi morire di crepacuore, figlia cara... -
- Non è così, Maria... sai quanto ti voglio bene, ma sono confusa. Ho bisogno di chiarezze! -
- Chiarezze... chiarezze... ma quali chiarezze. No, figlia mia, niente è stato mai chiaro e chiarito, dopo quella sera... - e si asciugò le lacrime che le erano scese sulle gote raggrinzite. Letizia provò pena nel vederla così affranta e sofferente. Si alzò e l'abbracciò affettuosamente.
- Mi dispiace... -
- Vostra madre Rebecca, la sera del 2 novembre dell'anno scorso... è scomparsa. E da allora, non si è saputo più nulla. Sono state fatte assidue ricerche, ovunque sia in zona che fuori, ma di lei nessuna traccia. Vostro padre, sconvolto, ha mobilitato i migliori agenti; sono stati setacciati boschi, fiumi, manieri... niente... - e si fermò un lungo attimo. Riprese respiro e si soffiò il naso.
Letizia ammutolita si accasciò di peso sulla panca mentre il cuore le batteva forte in petto. Riuscì a riprendersi anche se un pallore diafano ed etereo diede al suo grazioso viso un aspetto spettrale.
- Ma... io l'ho vista, sì... ho visto il suo corpo, in giardino dal terrazzo. Allora non era un incubo!..- e cominciò a tremare.
- Figlia cara... su, calmatevi... Sono state fatte delle ricerche anche in giardino e molto minuziose, ma non è stato trovato nulla, neppure un segno; era solo un brutto sogno, anche se vostra madre è sparita proprio quella notte, con quel temporale furioso. -
- No... no... io l'ho vista. Il suo urlo mi ha svegliato! Era reale... - Ci furono momenti di silenzio mentre ansia e  tensione aumentarono diventando quasi palpabili.
- Coraggio... purtroppo nulla ha confermato il vostro racconto. Pensi... ogni effetto personale di vostra madre, nella camera non c'era più. Svuotata. E' come se avesse voluto sparire, scappare... non so che dire, figlia cara... non so che pensare! -
- E come mai io non ricordo tutto questo? -
- Avete rimosso i fatti accaduti... rammentate solo l'incubo. Il dottor Agresti ci ha tranquillizzando confermandoci che nel tempo avreste ritrovato senz'altro la memoria e superato il trauma. - Ci fu silenzio, un silenzio quasi tombale.
- Non posso crederci. Scomparsa... Con papà era felice e non avevano problemi... vero? - e guardò di nuovo Maria mentre calde lacrime rigarono il viso di Letizia. 
La domestica abbassò il capo ed evitò lo sguardo interrogativo della giovane. 
- Perchè non mi rispondi? -
- Io non so che dirvi... ne parlerete con vostro padre quando rientrerà, a giorni. Ora ho da fare... - e uscì dalla cucina scomparendo velocemente all'interno della sala da pranzo e chiudendo la porta.

Continua

nereidebruna


martedì 5 novembre 2013

Passi d'ombre

L’atterraggio non fu dei migliori. 
Il mal di testa era peggiorato e lo stomaco dolorante mi provocava un pesante senso di nausea. Avevo abusato, come mio solito, con dei calmanti che spesso prendevo soprattutto quando dovevo volare.
Riavute le valigie presi un taxi direzione Roma nord, periferia.
Il cielo plumbeo e color acciaio annerì ancor di più il mio stato d’animo. 
Novembre... un mese che non ho mai amato: umido, freddo, grigio, lattiginoso. Il mese dei morti!
Dall’Inghilterra il viaggio in aereo non era stato lungo, ma da sempre avevo paura di volare e si aggiungeva anche la poca fiducia nelle compagnie. Infatti avevo preso un boeing 747 dell’Alitalia per maggior sicurezza. 
Eccomi di nuovo a casa dopo molti anni; avrei rivisto il mio luogo natio, la gente semplice e cordiale, i viali antichi e storici, la chiesa e il lungo campanile che addita al cielo e la mia villa disabitata da tempo che domina dall’alto del colle il panorama sottostante. 
Dopo infiniti ripensamenti mi ero decisa a ritornare. 
Il raccordo anulare era intriso di traffico e gli strombettii continui mi aumentarono il pulsare alle tempie.
Qualche goccia di pioggia ticchettò sui vetri dell’auto. 
L’autista canticchiava un motivetto allegro di musica anni ‘60 che trasmettevano alla radio. Mi innervosii ancor di più. Ero stanca e desideravo solo silenzio. 
Quando il taxi imboccò la strada in salita e fece i primi due tornanti capii di essere ormai a casa. Ero felice? Non lo so, almeno non ancora. Non riuscivo a comprendere il mio stato d’animo attuale.
Tredici anni erano trascorsi senza che ne sentissi la mancanza o provassi il desiderio di ritornarvi.
La cancellata dopo pochi attimi si aprì automaticamente. Notai sopra la targhetta ottonata del nome della villa: “ Villa dei Marchesi Ricci” la telecamera fissata in alto sul pilastro che puntava solerte l’occhio vigile sull’entrata.



Il taxi si fermò davanti al piazzale. 
L’autista scaricò le valigie; pagai.
Mi guardai attorno e provai un leggero brivido d’emozione. Pareva che tutto fosse immutato e che il tempo non avesse in alcun modo aggiunto nuove rughe all’ambiente. Il giardiniere e i guardiani avevano fatto un ottimo lavoro. Il prato inglese era falciato a pelo raso da poco; nessuna erbaccia spuntava lungo il vialetto piastrellato.
Cespugli ancora in fiore di rosa canina color carminio abbellivano qua e là il verde.
La fontana ornamentale zampillava spruzzi continui di limpida acqua che ricadevano in tante goccioline di pioggia sulla vasca in marmo adornata da piccoli putti in marmo bianco.
Ero frastornata e l’ansia palese mi inumidiva le mani e accelerava i battiti del cuore.

Gastone, l’ormai anziano maggiordomo di famiglia, mi diede il benvenuto:
- Signorina Letizia, è un grande piacere riaverla di nuovo qui con noi. Manca da troppi anni… vostro padre, il marchese, ha dato disposizioni a tutta la servitù perchè il vostro soggiorno a Villa Ricci sia perfetto sotto ogni aspetto – e il sorriso sincero in quel viso familiare dove il tempo aveva marcato il suo cammino e i modi galanti e servizievoli mi fecero ritornare come un tuffo al passato.


- Mamma, com’è brutta la notte, io ho paura – e le braccia allungate verso la madre, cercavano nel contatto materno, il conforto e la protezione. Aveva appena avuto un incubo ed era corsa nel lettone della mamma Rebecca, visto che il papà Benito era in Germania per un congresso.
- Figlia cara, non aver timore… il buio è il momento in cui tutti i cuori e i respiri si riposano dopo lunghe ore di impegno. Nel sonno ritrovano l’energia perduta e si preparano in attesa della luce. -
E quella notte priva di luna e di stelle violentata da un forte temporale e da raffiche di vento impetuoso fu per Letizia l’inizio perpetuo di un’oscurità densa come l’inchiostro che nascose per lungo tempo, con maestria, ai suoi occhi azzurri i tanti bei colori arcobaleno e le sfumature cangianti della vita.




Un grido lungo e penetrante svegliò d’improvviso la giovane Letizia.  Aveva forse sognato? O era solo la furia del temporale… Si guardò attorno: lampi e saette squarciavano le tenebre illuminando a intermittenza la stanza da letto. Ci vollero alcuni secondi per riacquistare lucidità. Si allungò per accendere la luce, ma non funzionò; evidentemente il brutto tempo aveva creato qualche guasto alla centralina.
Scese dal letto e cercò nel cassettino del comodino una candela. Con un leggero tremore alle mani, frugando fra le cianfrusaglie, trovò anche l’accendino. Indossò la vestaglia a fiorellini color avorio, regalo della mamma al suo quindicesimo compleanno e uscì fuori nel corridoio. La porta cigolò con un suono sinistro che provocò a Letizia inquietudine e tensione. Un forte tuono la fece rabbrividire; nei vetri chiusi delle finestre la pioggia batteva con rabbia e insistenza.
Le porte delle altre stanze erano chiuse, tranne una… leggermente scostata: la camera della mamma. 
La fiamma della candela oscillò mossa da una folata d’aria che investì la giovane quando aprì completamente la porta della camera.
- Mamma… mamma, sono io… – e si avvicinò al letto: vuoto!  La porta finestra che immetteva nel balcone era aperta. Le lunghe tende bianche svolazzavano fluttuando come sinistri fantasmi. Letizia cominciò a tremare non solo dall’aria fredda e umida che proveniva dal terrazzo ma anche da una spiacevole strana sensazione. Forse doveva chiamare qualcuno; Maria, la domestica… Carmela, la cameriera, Gastone, il maggiordomo, Pedro, l’addetto alle scuderie e  Tonio, il giardiniere… ma riposavano nella depandance, tranne Maria che dormiva nella cameretta adiacente alla cucina.
Si fece coraggio e riparando la candela dall’aria con la mano varcò la portafinestra del terrazzo. Il buio che da sempre, sin da piccola, la spaventava l’avvolse completamente. Alcuni lampi e la luce del lampione nel giardino sottostante le fece ritrovare un po’ di autocontrollo calmandole i nervi tesi; si espose dalla ringhiera, guardando con attenzione a destra e a sinistra. E vide… vide quello che non avrebbe mai potuto immaginare e che una ragazzina avrebbe mai dovuto vedere. Al di sotto, accanto ad un cespuglio di rose canine il corpo inerme, immobile, fradicio e spettrale di sua madre riversato su di se. 



Si risvegliò nel suo letto la mattina successiva; un raggio di sole filtrò attraverso i tendaggi riversando la sua luce sul guanciale. Pochi secondi dopo, in un flash le ritornò in mente il temporale, la portafinestra aperta… quel corpo… e si destò di scatto. Un incubo, sì era solo un incubo! E si calmò. Un respiro profondo e guardò la sveglia sul comodino. Erano quasi le dieci. Accanto notò la candela e un tuffo al cuore le fece mancare il respiro. Saltò giù in fretta dal letto e corse fuori…
-Mamma… mamma – ma la stanza era vuota. Il letto composto e la camera nel più assoluto silenzio. La stanza da bagno era in perfetto ordine; nessun indumento personale. L’armadio era vuoto, niente abiti, niente biancheria.
Inforcò le scale e raggiunse la cucina. Maria era intenta ad infornare un dolce di marmellata e il profumo di zucchero e farina aveva già intriso dolcemente l’aria. La sentì e si girò.
- La mamma, dov’è ?- chiese con un fil di voce Letizia.
- Cara, che dite? Non state bene? Venite qui… sentiamo se avete qualche linea di febbre – la domestica le si avvicinò e mise il palmo della mano sulla fronte della giovane.
- Maria, sto bene ma… la mamma dov’è? -
- Niente febbre, siete fresca come una rosa, figlia mia. Dai, accomodatevi e fate colazione… -
- Ma non mi senti… perchè non mi rispondi – La domestica, al servizio dei marchesi Ricci da parecchi anni, la guardò perplessa.
- Avete avuto il solito incubo, immagino, bimba cara. – La giovane sbuffò alzando le spalle.
- Può essere…  ma ti ripeto, dov’è la mamma?… -
- Mi arreca così tanto dolore ricordarvi quei momenti. Cercate di non pensarci e fate colazione. Il latte si sta raffreddando! – e le avvicinò di più la tazza ancora fumante della bianca bevanda posta sul tavolo. -
- Non voglio il latte, Maria… ora no. La camera della mamma è vuota. Dov’è andata… perchè non è qui con noi… -
- Siete testarda e insistente come vostro padre; di quello che è accaduto un anno fa, non voglio riparlarne, Letizia cara. – Irritata e nervosa scostò con rabbia la sedia che cadde per terra e uscì di corsa dalla cucina.

Raggiunse le scuderie e trovò Pedro intento a strigliare la sua cavalla bianca Morgana. 
- Oh signorina, buon giorno. Ha visto che bella giornata dopo il brutto temporale di stanotte? – La cavalla appena vide Letizia girò la testa e cercò la sua mano; la splendida criniera si mosse come fili di seta. Accarezzò il pelo liscio dell’animale che tirò fuori la lingua e gliela inumidì.
- Senti Pedro – ma fu interrotta.
- Ditemi signorina, desiderate che selli Morgana?E’ quasi pronta! - 
- Ma oggi cosa avete tutti? Non mi lasciate parlare. No, Morgana la cavalcherò dopo, ora devo parlarti… – e quasi urlò indispettita. Pedrò rimase ammutolito. Poi si schiarì la voce e aggiunse:
- Mi rincresce… avrei da fare. Mi aspetta la strigliata a Nerone e Attila – e si avviò verso il fondo della stalla. Letizia lo seguì mentre soffocava l’ira che cresceva dentro di se. 
Rimase per parecchi secondi lì a fissare le spalle di Pedro che incurante riprese a strigliare con più vigore lo stallone Nerone, il quale nitrì innervosito dai gesti bruschi dello stalliere.
Letizia sbuffò e uscì dalla scuderia. Poi, si fermò... tornò indietro e velocemente sellò Morgana. 

Si inoltrò al galoppo nel grande giardino circolare della villa seguendo il sentiero battuto, fra altri pini e grosse querce. Doveva cercare di rilassarsi un po' e di riacquistare calma e padronanza. Qualcosa non le era chiaro. Il personale evitava di rispondere e tergiversava. Si chiese più volte il perchè.
Il padre era troppo impegnato e sicuramente non avrebbe risposto alle sue telefonate, inutile quindi tentare.
Al trotto spronò la cavalla; i lunghi capelli chiari e le bianche vesti da camera fluttuavano all'aria come nuvole vaporose.
Tirò le redini e si fermò: scese a terra e accarezzò la testa di Morgana e con le labbra le sfiorò il naso. L'adorava e con lei si sentiva libera e serena gustandone pienamente il vero senso. Amava correre nei boschi incitandola, e raggiungere il fiume che scendeva lento nella valle per poi sparire nel lontano mare; s'inebriava di profumi campestri, di suoni e canti d'uccello, di cieli azzurri e limpidi...

Ritornò a casa, senza ansia.
- Signorina - le venne incontro sull'uscio, Maria chiaramente arrabbiata - ma è il modo di sparire così e andare a cavallo in quello stato? Vi buscate un malanno... ma guarda un po'... oggi mi state facendo impazzire. Su, andate in camera a vestirvi in modo decente. - Letizia non ribattè. Lasciò le redini a Pedro e salì nella sua stanza da letto. 
Gastone il maggiordomo stava scendendo le scale.
- Eccovi finalmente... Maria è su tutte le furie. State bene, signorina? - annuì.





Passando davanti alla camera della madre sentì però un leggero rumore di passi ovattati all'interno. Poi le parve di udire il cigolare di un'anta dell'armadio. La porta era chiusa. Un sorriso si stampò automaticamente nel sul viso che divenne radioso e con voce appena percettibile chiamò: 
- Mamma... mamma...! - e aprì la porta senza esitazione. La portafinestra era spalancata e una  raffica improvvisa di vento mosse le tende e aprì l'anta dell'armadio che andò a sbattere sullo specchio fissato nella parete. Cadde a terra violentemente e si frantumò in infiniti pezzi. In ogni scheggia vide riflessa la sua immagine pallida e spaventata come in un ologramma. Rabbrividì provando un senso di inquietudine e di tensione;  per un attimo le parve di non essere sola...  Scosse la testa frastornata. Scacciò l'ansia con un profondo respiro e si diresse velocemente nella propria stanza.

Si cambiò d'abito indossando un paio di jeans e una canotta azzurra. Si legò i capelli a coda di cavallo e si avviò verso le scale. Si soffermò un attimo  davanti alla porta della camera delle madre Rebecca. Risentì quei passi e altri strani incomprensibili rumori e senza tergiversare la spalancò di nuovo.
Curva sul pavimento c'era la cameriera Carmela intenta a raccogliere  i pezzi dello specchio sparsi sul pavimento. Si girò e la vide.
- Ah, signorina, siete voi... avete visto che disastro? Lo specchio è caduto per terra... forse un colpo di vento. Stamattina presto ho arieggiato la stanza e ho dimenticato di chiudere la finestra. Che sbadata! Speriamo non sia indice di un cattivo presagio. Io sono superstiziosa...oh, povera me! - e continuò a pulire.

continua

Anno Domini 1314 – 18 Marzo – Jacques de Moley e i Cavalieri Templari –-




“Una nuova cavalleria è apparsa nella terra dell’Incarnazione… che si combatta contro il nemico non meraviglia, ma che si combatta anche contro il male è straordinario. Essi non vanno in battaglia coperti di pennacchi e fronzoli, ma di stracci e con un mantello bianco;  non hanno paura del male in ogni sua forma e attendono in silenzio ad ogni comando aiutandosi l’un l’altro nella dottrina insegnata dal Cristo. Essi fra loro non onorano il più nobile, ma il più valoroso… essi sono i Cavalieri di Dio… essi sono i Cavalieri del Tempio”.

Anno Domini 1191
Scriveva Papa Clemente III: “Consacrati al servizio dell’Onnipotente, vanno considerati parte della Cavalleria Celeste”. Anche Pietro il Venerabile ammoniva: “Chi non si rallegra con tutto il suo animo in Dio suo Salvatore, che la Cavalleria dell’Eterno, i Templari, abbia lasciato gli accampamenti celesti per scendere a ingaggiar nuove battaglie, a battere i principi di questo mondo, a sconfiggere i nemici della Croce di Cristo?… e siete Monaci nelle vostre virtù, Cavalieri nelle vostre azioni; le une le realizzate con la forza dello spirito, le altre le esercitate con la vigoria del corpo”.

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Anno Domini 1307

Le casse dei regni erano sempre più vuote dovute alle continue guerre che attraversavano il vecchio Continente e dalle sconfitte precedenti dei cristiani con le Crociate.
Il Re di Francia Filippo il Bello accomodato sul sofà in broccato rosso ascoltò attentamente le parole del suo fidato consigliere Guillaume de Nogaret:
- Non vi sono dubbi, Vostra Maestà. Esquin de Floyran, capitano templare a Montfaucon, mi ha riferito esattamente ciò che è accaduto. Circolano voci sia fra il popolo che la nobiltà di alcuni cavalieri templari sulle loro presunte deviazioni sessuali e spirituali. Da non credere! Ci sono testimoni che affermano  l’idolatria e l’eresia di questi uomini di cui la nostra amata Chiesa ha gran stima. Pare siano arrivati addirittura alla sodomia, alla blasfemia e allo sputo sulla croce. Papa Clemente V è sconvolto! -
- Non ho parole. Hanno giurato di servire Cristo osservando la castità e l’obbedienza, rifiutando ogni proprietà. Ora sono diventati ricchi. I loro manieri e monasteri traboccano di innumerevoli beni e noi siamo in ristrettezze; sciagurati, il giudizio di Dio non tarderà. – Ci un un lungo silenzio. I rumori esterni di voci e cavalli si sentivano attutiti.
- Comunque non Vi preoccupate Maestà, il Papa è deluso. Credo che aspetti di incontrarvi quanto prima per capire come comportarsi. -
- Fermeremo questi eretici, è una vergogna per la Santa Chiesa. Sguinzagliamo i nostri uomini per tutto il regno a caccia dei monaci blasfemi. Se catturiamo il loro maestro, quel certo Jacques de Moley, li bloccheremo senza difficoltà. Il Papa Clemente me lo lavoro io… è un debole e non reggerà. Sarà uno scherzo farmi appoggiare anche da lui. -
Eccitato Filippo pregustava già ricchezza traboccante nelle sue casse e  più potere nel regno,
- Bene, sia così. Mi congedo – e inchinandosi Nogaret lasciò la sala.

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- Non sottovalutate  queste informazioni, Maestro. Il Re di Francia e il Papa stanno credendo alle false dicerie che circolano su alcuni dei nostri monaci. Dobbiamo screditarle altrimenti i problemi potrebbero diventare seri aggravando la nostra situazione ecclesiale. -
Jacques de Moley si accarezzò la lunga folta barba. Il bianco mantello si mosse al vento e la croce rossa patente sul lato sinistro parve una leggera farfalla svolazzante.
- Non temere, Geoffroy… il Signore è con noi. -

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Agosto 1307

Il Papa Clemente V sfiduciato e rattristato cede alle pressioni del Re:
- Che Dio abbia pietà di me. Non mi resta che aprire un’inchiesta. -
- Non preoccupatevi Santità, nulla sarà tralasciato; se è come afferma il templare de Floyran quei monaci avranno la giusta pena. Dio non perdona chi Lo oltraggia. – dichiarò Nogaret.



Anno Domini 1307 – 14 settembre

- Hanno arrestato molti dei nostri fratelli francesi, Maestro. Alcuni sotto tortura sono stati costretti a confessare il falso e avvallare le accuse infamanti; altri, e che Dio li abbia in gloria, sono stati uccisi barbaramente. – Il precettore di Normandia  Geoffroy de Charney era sconvolto e irato.
- E’ vero, hanno superato ogni limite. Siamo innocenti! Andrò personalmente a parlare con il Re Filippo il Bello. -
- No, non fatelo… vi arresterà. Quell’uomo mira a distruggerci per impossessarsi dei valori da noi custoditi; è un uomo malvagio, ben lo sapete, assetato di potere. Papa Clemente ci aiuterà. Contiamo su Sua Santità. -
- Credo che il nostro Pontefice sia in balia di questo sovrano. Mi perdoni il mio Dio, se mi permetto di fare tale affermazione. So che la Sua salute è cagionevole e le Sua forza viene meno. La Chiesa è in serio pericolo – e aiutato da Geoffroy indossò il mantello.
- Verrò con voi, Maestro! – Jacques de Moley annuì.

E il Re in persona ricevette i due cavalieri.
- Che sorpresa, la vostra visita – ma i suoi occhi si ridussero in una fessura scura e lo sguardo divenne  inquietante.
- Conoscete fin troppo bene il motivo per cui siamo qui. Noi siamo dei semplici monaci e non abbiamo mai disonorato il Nostro Dio. Egli è sopra di Tutto; come potete credere a tali menzogne. -
- Calmatevi… Voi sapete bene che il Santo Padre ultimamente è molto debole. Questo comporta una forte fragilità nel potere ecclesiale. Io potrei risanare tali lacune e mi sovviene di pensare a voi, monaci guerrieri. Riflettete…  -
Cadde un pesante silenzio nella sala. Un raggio di sole entrò dalla finestra inondando di luce una parte del pavimento color ocra.
- Maestà, l’Ordine dei Soldati di Cristo non brama al potere, alla gloria… solo quella di Dio. Vi chiedo… lasciateci in pace – e con un leggero inchino uscirono dalla stanza mentre il sovrano irrigidito e teso divenne scarlatto. Con rabbia scaraventò a terra il calice con il vino e si alzò di scatto.
A voce alta pronunciò una sentenza:
- Bene, me la pagherete. Avete firmato la vostra condanna, Jacques de Moley e nessun dio potrà fermare la mia ira. -

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Anno Domini 1307 – 13 ottobre

- La bolla papale… eccola finalmente… – e Filippo il Bello, con un sorriso soddisfatto, attese qualche minuto, in assoluto silenzio estatico.
Doveva essere privata del sigillo, aperta e letta da tutti i regnanti alla medesima ora.
Il contenuto era chiaro ed esplicito: distruggere i templari e impossessarsi dei loro tesori. L’accusa infamante era tra le peggiori per la cristianità: eresia e idolatria.

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 13 ottobre

E accadde l’inevitabile.
L’ora dei vespri. Le prime luci dell’alba.
Nella cappella dell’Ordine del Tempio di Parigi Jacqued de Moley e Geoffroy de Charney assieme ad altri monaci iniziarono le preci con il loro consueto motto scandito all’unisono.
- “Non nobis Domine, non nobis, sed nomini Tuo da gloriam” - ma alcuni rumori provenienti dai corridoi li mise in allarme. Troppo tardi: un gruppo di soldati armati capitanati da Guilliaime de Nogaret entrarono irrompendo nella cappella.
- Ecco l’ordinanza papale… siete tutti in arresto – dichiarò la possente voce di Nogaret con un sorriso sprezzante e beffardo.
Nessuno oppose resistenza, neppure il Maestro trovando inutile e pericolosa ogni obiezione.

L’interrogatorio che subirono i monaci del Tempio fu spietato. Le torture a loro inflitte erano terribili e atroci. Trentotto di loro morirono a causa delle sevizie.
Il Grande Inquisitore Guillaime de Paris, di Francia, confessore di Filippo il Bello riuscì a ottenere le prime “confessioni”.
Il Papa Clemente V chiese esplicitamente di sentire lui stesso i Templari a Poitiers. Gli fu però riferito che la maggior parte dei monaci erano prigionieri del Re, a Chignon e impossibilitati a viaggiare perché troppo deboli. Si vide costretto a delegare tre sui fidati cardinali: Bérenger Frédol, Étienne de Suisy e Landolfo Brancacci e li mandò ad ascoltare i testimoni a Chinon.

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Anno Domini 1310 – 6 febbraio

- Siamo innocenti… siamo innocenti – urlarono a gran voce sedici monaci durante il processo. Si unirono a loro anche gli altri fratelli.
- Abbiate pietà di noi… è tutto falso. Siamo innocenti! -
Ma Filippo il Bello non perse tempo e continuò la sua personale persecuzione ancora più agguerrita,  diventata pari ad una sfida. Bramava la loro totale distruzione.
Il 12 maggio cinquantaquattro Templari salirono sul rogo e le fiamme ardenti lambirono i loro mantelli e avvilupparono i loro corpi in un abbraccio mortale.
Anche il Maestro Jacques de Moley, sfinito dalla continue torture, distrutto nel corpo e nella morale, cedette e confessò ammettendo le colpe di cui era accusato l’Ordine.

Una commissione papale venne nominata il 22 dicembre 1313. Tre cardinali e i procuratori del Re di Francia avrebbero deciso il destino dei quattro dignitari dell’Ordine.
Davanti a questa commissione, ribadirono le loro colpe.

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Anno Domini 1314 – 17 marzo

L’alba. I quattro Templari furono prelevati a forza dalle celle e portati sul sagrato di Notre-Dame de Paris.
E’ qui che Jacques de Molay, Maestro dell’Ordine del Tempio, Geoffroy de Charnay, Precettore di Normandia, Hugues de Pairaud, Ispettore di Francia e Geoffroy de Goneville, appresero la sentenza e quindi la loro sorte.
- La corte dell’Inquisizione dopo aver svolto le dovuto ricerche e aver ascoltato le confessioni, vi condanna al carcere a vita. -
Un freddo brivido raggelò il Maestro. In quell’attimo la rabbia, l’ira e la ribellione s’impossessarono di Jacques e Geoffroy che gridarono contro il cardinale e  l’arcivescovo di Sens, Philippe de Marigny, la loro innocenza ammettendo chiaramente che avevano mentito ai Giudici dell’Inquisizione a causa delle terribili torture subite. Vennero quindi dichiarati recidivi e rimessi al braccio secolare della giustizia reale.

18 marzo

Il giorno dopo, Filippo il Bello convocò il suo consiglio e, ignorando i cardinali, condannò Jacques de Molay e Geoffroy de Charney, al rogo.
Furono scortati sulla “île aux Juifs”(“l’isola dei Giudei”, oggi “Île de la Cité”) per essere bruciati vivi.
Era l’ora dei vespri. Il cielo era plumbeo e il sole pareva scomparso: una nebbiolina grigia e impalpabile sfumava tristemente l’aria.
Il Maestro, quando vide il fuoco acceso, si spogliò senza esitazioni. Si tolse gli indumenti, esclusa la camicia, lentamente e con tranquillità, senza alcun tremito, anche se lo spingevano e lo percuotevano. Fu legato al palo;  ai suoi carnefici disse:
- Lasciatemi congiungere un po’ le mani per poter invocare Dio con la mia ultima preghiera terrena, poiché questo è il momento, essendo in punto di morte; e Dio sa, ingiustamente. Accadranno ben presto disgrazie a coloro che ci condannano senza giustizia. Dio vendicherà la nostra morte; muoio con questa convinzione. –
I due imputati chiesero di girare la faccia verso la cattedrale di Notre Dame. Questa grazia gli fu concessa e la fine li prese così dolcemente senza alcun lamento e con grande dignità.  Le fiamme come spire di serpi consumarono i loro corpi e un bianco fumo salì al Cielo.

E le ultime parole che pronunciò, prima di morire, il Maestro dei Templari si avverarono. Davanti al Tribunale di Dio si presentarono il Papa, quaranta giorni dopo consumato da atroci dolori dovuti ad un cancro e il Re di Francia Filippo IV il Bello, che otto mesi dopo morì cadendo da cavallo in una battuta di caccia.

Finirono così il loro viaggio terreno i Cavalieri del  Tempio. Martiri. Ma inimitabile rimane il loro mito che è ancora vivo nei cuori di chi crede nell’Unica Verità e combatte valorosamente per Cristo armato di spada della fede.

“Deus vult”

nereidebruna

Re Artù - Una leggenda


Una nebbiolina leggera e impalpabile sfumava i contorni del castello merlato situato su un’alta radura schiaffeggiata da spumeggianti marosi e violenti venti. 
Re Artù era turbato. Guardava la sua amata Ginevra provando un sentimento ancora sconosciuto ma che si faceva sempre più reale e intenso, sconvolgendo la sua serenità d’animo e la sua compostezza. L’abito che indossava quella mattina la rendeva ancor più splendida e radiosa. Incontrò il suo sguardo e le sorrise.
- Mia cara, siete deliziosa! -
- Hai vostri occhi sono sempre incantevole… - 
- Come potrò separarmi da voi, Ginevra? La vostra presenza costante mi conforta. -
- Non angustiatevi oltre…  Andiamo, attendono la nostra presenza, in sala – e si avviarono in silenzio lungo il corridoio illuminato dalle torce accese. Le fiamme si muovevano sinuose mosse da spifferi d’aria fredda che entravano dalle finestre. Scesero la scalinata.
Il fruscio dello strascico della veste che sfiorava il pavimento accompagnò i loro passi che risuonavano cadenzati negli ambienti vasti e spogli del castello.
Attorno ad una grande tavola rotonda alcuni cavalieri stavano discutendo animatamente. Si zittirono quando entrarono i due regnanti.
- Miei prodi, inutile sprecar parole vane. E’ arrivato il momento di batterci… - 
- Siamo pronti, re Artù e non temiamo lo spettro della morte! – Con voce decisa, Lancillotto del Lago, il più ardito e valoroso combattente, impugnò la spada e la alzò verso il cielo, in segno di sfida. La lama argentea s’illuminò colpita da un raggio di luce entrato da una piccola apertura del soffitto a cupola.
Il sovrano abbassò il capo evitando lo sguardo del giovane guerriero. 
- Siete a conoscenza che Modred, mio nipote, che tanto amai un tempo, sta tramando per usurpare il mio trono e diventarne sovrano assoluto. Dobbiamo raggiungere la pianura di Salisbury e lì, combattere senza tregua.-
- Permettetemi… con i centomila uomini del nostro esercito, quel traditore non avrà la meglio. Io stesso lo ucciderò! – aggiunse Lancillotto.
- E’ certo che gli daremo filo da torcere e le nostre spade si sporcheranno del loro sangue – e cercò lo sguardo della moglie; ma la sua amata fissava sfrontatamente Lancillotto.


Il sovrano si schiarì la gola… 
- Partiremo domani all’alba – dichiarò con tono deciso. I  membri della Tavola Rotonda sciolsero l’incontro; s’inchinarono devotamente ai due regnanti e poi lasciarono la sala.
Un pesante silenzio calò nel grande stanzone. Ginevra si avviò verso l’uscita.
- Aspettate, mia adorata… desidero condividere con voi questo triste momento. Vi lascerò sola e non so se farò più ritorno in vita, ma sappiate che vi amo immensamente e che il mio cuore vi apparterrà sempre. -
- Non dite così… tornerete vittorioso, ne sono certa. Non abbiate timore! –  e raggiunta la porta, uscì sparendo inghiottita dalla penombra.
Quando calò la notte e una spessa coltre scura coprì ogni forma… un fruscio… un’ombra sgattaiolò veloce e scese la scalinata raggiungendo l’arco che immetteva nell’ampia corte.
E due ombre si unirono diventando una sola forma.
- Mia amata…  -
- Vi aspetterò, cavaliere… nessuna lacrima e neppure sconforto, so che vi riabbraccerò di nuovo. -
- Lontano da voi sarà un lento morire. Un’agonia che consumerà la mia anima, diletta Ginevra. Ve lo prometto… tornerò. E ancora vi amerò! –  
- Oh… mio Lancillotto – e si fusero in un lungo abbraccio.
Poco più il là, qualcuno nascosto dietro a un muro, osservava la scena in silenzio. Strinse i pugni, riprese respiro, soffocò la rabbia e dileguandosi, scomparve.
L’alba.
L’esercito era pronto e schierato.
Re Artù si avvicinò con passo pesante a Ginevra. Lasciò le briglie del suo bianco cavallo e prese le sue mani; le strinse forte e guardandola negli occhi di un intenso azzurro mare, sussurrò:
- Addio, mia amata regina… – e non aggiunse altro. Salì in groppa al destriero e si avviò verso la valle seguito dai suoi uomini.

La battaglia fu dura e cruenta.
Per un attimo, pareva che entrambi i re avessero raggiunto un accordo per far cessare definitivamente la rappresaglia, ma la mal fiducia rispettiva uno dell’altro e un gesto immediato e impulsivo di un cavaliere di Modred che fulmineo estrasse la spada per uccidere una serpe uscita dai rovi, scatenò il finimondo.
La guerriglia riprese più violenta che mai.
Cadono al suolo, fra urla strazianti colpiti a morte, i cavalieri della Tavola Rotonda. Lancillotto si battè come una furia, ma una distrazione gli fu fatale e una lama gli perfora il cuore. Il suo ultimo pensiero fu per Ginevra. Re Artù lo vide cadere… e senza esitazione alcuna, colpisce Modred con una lancia, uccidendolo. Ferito a morte, il grande re si accascia privo di vita. Le ultime parole, che riuscì a dire furono: “Mia amata Ginevra.”

Dal suo castello, Ginevra guardava verso la valle immersa nella nebbia mattutina. Il mare adirato urlava rabbioso sbattendo poderosi flutti sulla scogliera.
Stava nascendo un altro giorno, un’altra alba.
Uno strano presentimento… un senso di inquietudine l’invase.

E fu di nuovo buio. Rabbrividì e attese.

nereidebruna

Una data da ricordare: 13 maggio 2007

Finalmente ti ho incontrato. E’ stato amore a prima vista; e non fu complice il profumo acceso di primavera e il volteggiare d’angelo dei gabbiani.
Ti sognavo già da bambina e solerte tu, nelle buie notti cullavi dolcemente il mio riposo cantando una perpetua soave nenia. Quanti lunghi anni lontano da te.
Ti cercavo nel tempo che scorreva inesorabile, aspirando al tuo abbraccio infinito, al soffio del tuo respiro fra i miei capelli, alle tue sensuali carezze scivolare sinuose sul mio corpo.
Oh… come ti desideravo… come ti amavo profondamente già nei miei pensieri.
Appena i miei occhi, quel giorno di maggio, incrociarono i tuoi di un intenso blu acquamarina, senza esitazione alcuna, mi tuffai annegando e perdendomi in essi.
E subito mi hai portato in alto, a sfiorare il Cielo dove la mia estasi sublime si univa in un paradiso senza fine, in quell'avvolgente amplesso primordiale che solo tu sai donare alle tue amate creature. Per lunghi attimi hai rapito la mia anima annullando ogni mio sentimento terreno, lasciandomi toccare il divino.
E lì, ho scorto le lucenti stelle diventare preziosi diamanti e la tonda luna specchiarsi vanitosa in quel tuo immenso cobalto di zaffiri.
Ah… come ti amai, quel giorno…
Ora, oltre l’orizzonte, dove il sole in te tramonta sciogliendosi in oro, una piccola bianca vela va, e fra le ovattate spume e le ricciolute onde, ballerà dolcemente danzando nella tua musica e nei tuoi respiri.
Mio amato mare…
Con il cuore ebbro d’amore riesco a sussurrarti con tanta tenerezza:

“Il nostro inizio è un eterno senza fine…!”

nereidebruna

Formia, terra di Lestrigoni

Un luogo d’incanto, dove miti, eroi e leggende si perdono nei tempi. Terra di battaglie, dove Ulisse approdò con le sue navi ammaliato da tali bellezze. Si lasciò abbracciare dalla maga Circe… e combattè con coraggio contro un popolo di giganti: i Lestrigoni.

Sbarcai cercando salvezza e speranze; mi ritrovai solo e sperduto ma l’incanto del luogo, l’aria odorosa di salmastro, il cielo terso, il mare cristallino e il verde lussureggiante dei pendii rinfrancò il mio animo turbato. Avevo perso tutto, amici e navi e la paura non lasciava il mio cuore affranto. Dolore, rabbia, rancore… gli dei mi avevano abbandonato in balia dell’onde. Che tristezza… !!!
La vidi: bella dai lunghi capelli corvini, dagli occhi scuri e penetranti, dall’incarnato ambrato e fine come seta. L’abito fluido e color zaffiro le fasciava morbidamente le curve sinuose. Forse era una dea? Accennò ad un dolce sorriso che ricambiai. Mi avvicinai. E la mano che mi tese fu un invito… il contatto mi fece rabbrividire.
- Chi sei, creatura o divina dea? -
- Sono Circe, prode Ulisse… e sei nel mio regno! -
- Tu conosci il mio nome… -
- Ti aspettavo! -
- I miei uomini e le mie navi sono andate perdute. -
- Lo so, non temere, allieterò i tuoi giorni e non sentirai sofferenze e turbamenti.  Accanto a me solo dolcezza ed estasi. Vieni, seguimi… bevi dal mio calice l’elisir di lunga vita: sarai immortale e insieme godremo eternamente i frutti dell’amore carnale. -
- Non nego che mi attrae il tuo abbraccio e il pensiero di immortalità, ma devo tornare a Itaca. -
- Fermati solo un po’… nulla ti mancherà qui. Ogni tuo desiderio sarà esaudito. Dimentica Penelope! – A quel nome ad Ulisse gli battè forte il cuore in petto. La sua dolce Penelope lo stava aspettando da tempo.
- Lasciami andare incantatrice. Tu, maga di incantesimi e sortilegi… solo l’abbraccio di Penelope può darmi ristoro. Le tue promesse sanno d’inganno e di menzogna… -

- Povero illuso. Vai, vattene… laggiù c’è una nave. E’ tua, prendila, torna dalla tua amata ma sappi che la tua vita sarà un susseguirsi di lotte, sofferenze, dolori e l’amore al quale tu tanto aneli, non vincerà. – Quelle parole lo intristirono profondamente ma non perse il coraggio. Raggiunse la nave e riprese il mare. Forse Penelope e la sua Itaca sarebbero rimaste solo un sogno, un desiderio, una speranza, ma quello che contava veramente era il viaggio per raggiungere la meta.

nereidebruna

Ripensando alla vita



Mi trovo qui e alcuni miei compagni sono ormai agonizzanti.
Chiuso in questa cella da giorni, rabbrividisco al pensiero dell’atroce battaglia combattuta. Quanto orrore, quanto sangue versato. Quanti giovani hanno perso la vita. I loro corpi riversi, sfigurati, smembrati e ridotti a pezzi non avranno neppure sepoltura.
Il mio profondo desiderio di difendere la patria, l’onore e i valori in cui credevo si perdono nei fumi delle esplosioni. Mi è rimasta solo la rabbia, il dolore e tanta tristezza infinita.
Ho visto troppa sofferenza, l’ho toccata, respirata, scorta nei volti straziati e nei cuori affranti.
E, mi tornano in mente i miei anziani genitori. Due grandi persone unite da un profondo e rispettoso amore inviolato nel tempo. Il loro affetto trasmesso con semplicità di gesti e continue attenzioni ne smussavano le severità.
Ora più che mai sento l’intima mancanza delle nostre domenica, quando di buon mattino con la vecchia utilitaria verde che borbottava, ci recavamo in città vestiti a festa per partecipare alla funzione religiosa.
Don Vito attendeva i fedeli sull’uscio della chiesa; ci stringeva la mano e benediva la nostra presenza.
Quanta pace dentro quelle mura. Conclusa la messa, nel piccolo bar “Da Mario” si faceva colazione, un lusso a quel tempo: ingurgitavo con piacere la tazza di caldo cioccolato e il cornetto con la crema di zabaione sporcandomi di zucchero a velo e panna montata. La mamma mi sgridava perché impasticciavo la camicia migliore mentre papà Franco rideva a crepapelle. Ero alquanto buffo con i baffi bianchi sopra al labbro.
A quel tempo parevano piccole cose insignificanti ma ora, questo spazio sporco, angusto, dove si respira odore di morte e urina, il mio cuore anelava a quei ricordi.
Il vuoto, la paura, la fine imminente, mi rammentò in un flash la nostra pochezza di uomini peccatori.
Cerco un po’d’azzurro appena visibile dalla piccola finestrella posta in alto chiusa da una grata.
Il cielo aveva persa la sua magia, il suo infinito, ridotto a pezzi. La tenebra accompagnava i miei giorni.
Sfinito, mi accovacciai in un angolo “lontano”dai lamenti, dai gemiti e dagli ultimi respiri.
Un sorriso strozzato si disegnò nel mio viso per pochi secondi: rivedevo in un susseguirsi di scene bizzarre, Poldo, il mio vecchio fedele cane. Un “terribile” bastardino, peloso e arruffato, color ruggine, sempre a caccia di guai.
L’ultima volta mi portò con fierezza dimenando la coda, il pulcino scappato dall’aia di Mariuccia, la nostra vicina, cacciato e rincorso fino allo stremo. Orgoglioso di averlo riportato in salvo. Purtroppo privo di vita.
Chiudo gli occhi e mi sforzo di non piangere ma due lacrime scendono silenziose. Le asciugo con il dorso della mano.
Mi avvicino a Sandro, disteso e inerme. Respira appena… gli accarezzo i capelli scomposti e maditi di sudore. Si gira un attimo verso di me con il volto e mi accenna un debole sorriso. Il suo ultimo sorriso di vita. Raccolgo le mani in preghiera e fissando quell’azzurro fatto a pezzi, con voce appena percettibile recitai: “Pater Nostro, che sei nei Cieli…”

nereidebruna

La vita

“Possa io fare della mia vita qualcosa di semplice e diritto,
come un flauto di canna che il Signore riempie di musica.”

San Agostino
E gli uomini se ne vanno a contemplare le vette delle montagne, i flutti vasti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l'immensità dell'oceano, il corso degli astri, e non pensano a sé stessi.

Sal.26

Il Signore è mia luce e mia salvezza:
di chi avrò timore?
Il Signore è difesa della mia vita:
di chi avrò paura?

Sal.138
Guidami, Signore, per una via di eternità.

Signore, tu mi scruti e mi conosci,
tu conosci quando mi siedo e quando mi alzo,
intendi da lontano i miei pensieri,
osservi il mio cammino e il mio riposo,
ti sono note tutte le mie vie.